La vicuña è un piccolo camelide dal musetto dolce che vive selvaggio sulle Ande tra i 3.200 e i 5.500 metri.
Le origini sono antichissime. Sappiamo che nel 1200 gli inca filavano la vicuña solo per le vesti dei re e le vicuñe erano considerate animali sacri.

Con l’arrivo degli spagnoli iniziò l’uccisione degli animali per averne il vello; essa divenne sistematica e diffusa nei paesi andini, fino al 1960.
Nel 1965, raggiunto il record negativo di soli 5000 esemplari ancora in vita, il governo peruviano intervenne con la creazione di riserve naturali – incentivando inoltre lo sviluppo di nuovi metodi di allevamento su aree di grande estensione e imponendo divieto di vendita del manto di vigogna.

La vicuña venne in seguito dichiarata specie a rischio estinzione. Perù e Bolivia per primi, Cile e Argentina in seguito, firmarono accordi di tutela della vicuña e tutti dedicarono enormi spazi territoriali per gli allevamenti. Nel 1995 gli animali erano diventati 98mila. E il comnercio del vello in quanto tosato tornò ad essere legale. Oggi sono quasi 200.000 gli esemplari di vicuña. Ancora come specie da tutelare, seppur non a rischio di estinzione, ne è permessa la tosatura.

Dal caldo colore ambrato fino al color miele, più fine del cashmere o del baby cashmere (12,5-13 micron contro rispettivamente 14-15 e 13), più leggera e morbida al tatto, la vicuña è la “seta del nuovo mondo”. Un esemplare adulto produce solo 250 grammi ogni due anni, che diventano 150 dopo la degiarratura (il processo di separazione dalle fibre più grosse). Questo significa che per fare un cappotto di vicuña occorre la tosatura di 25 o 30 animali.

La vicuña quindi risulta essere tra le materie tessili più care.